Ed è uno spettacolo che prende ispirazione dalle figure dei figli del Conte di Gloucester del “Re Lear” shakespeariano per studiare, in termini collettivi e attuali, il tema del fratricidio e dell’illegittimità dell’essere che si riflette, ad oggi, in molti ambiti del vissuto comune come si legge nel programma di sala.
Il riferimento a Edgar e Edmund Gloucester dai quali prendono nome i due protagonisti della piéce, è poco più di un pretesto, un inizio, come a voler nobilitare, storicamente, una materia al contempo attuale e astorica, egregiamente interpretata da Bruno Ricci e Angelo Rizzo.
Se in Shakespeare la motivazione della macchinazione del "figlio illegittimo" Edmund contro suo fratello legittimo e "ingenuo" Edgar è contro la norma sociale che ne fa un escluso per una "colpa" pregressa e concomitante alla sua nascita, nel testo scritto a più mani da Rossella Della Vecchia, Alice Fratarcangeli, Chiara Matera e Francesco Prudente, che firma anche la regia, diventa la conseguenza ineluttabile di una uomo, un padre, incapace di amare i propri figli.
Ridotto a una autorità impersonale, tanto che nello spettacolo è impersonato da una musica dinanzi la quale entrambi i figli indietreggiano e si inchinano come i sudditi dinanzi al proprio sovrano, questo padre, sordo e assente, nell'assenza del suo amore per loro, costringe i suoi figli a ottenere altrove quell'amore non dato, cercando conforto, ma trovando solo confronto, nell'amore fraterno.
Un confronto tra Edmund ed Edgard che mette in gioco il maschile tout court, che perde sempre più mordente nella sua incapacità di interagire con il reale e al contempo incapace di fare esperienza, cioè di crescere, condannato dall'ignavia paterna a quell'eterna adolescenza che molti maschi contemporanei non sanno (non vogliono) scrollarsi di dosso.
Se l'ingenuità di Edmund si traduce, sulla scena, nel suo infantilismo esplicito e dichiarato, molto tenero e virilissimo nella sua vulnerabilità, Edgard, che incarna il classico figlio debosciato che non lavora e passa le notti fuori casa, vive sulla propria pelle l'ammanco di autorità (virile) esemplificato da una condizione di "non legittimità" che non è più quella del sangue (come nel Bardo) ma la condizione diretta del maschile in una società dove anche il maschilismo è diventato un privilegio per pochi.
L'illegittimità diventa la metafora perfetta di una impossibilità a essere perché incapaci di divenire, di cambiare, di fare esperienza, una illegittimità che, non essendo amati, non essendo considerati, mina il fondamento stesso del diritto a esistere.
Il fratricidio finale compiuto da chi sembra più debole contro chi appare più forte, lungi dall'essere la rivolta contro un potere precostituito, restituisce la cifra di una società incapace di offrire non solo modelli identificativi ma anche percorsi di crescita e di fuga da un patriarcato tuttora vigente che nello spettacolo si esplica in una presenza tutta maschile dove il femminile è esiliato in un'alterità totalmente inconoscibile.
In questa lettura di un maschile autoreferente e vittima del suo stesso maschilismo anche il logos, il pensiero critico, nello spettacolo rappresentato da una serie di istallazioni–altari (delle scritte su carta retro-illuminate da una serie di tubi al neon), con frasi relative alla storia raccontata non necessariamente topiche o fondamentali, viene mostrato come pura, ingombrante e inutile forma fisica che ha perso qualunque capacità di spiegare e raccontare la realtà.
Forme del pensiero inutili e vulnerabili tanto che verranno dilacerate dai due figli prima del fratricidio concludendo una messinscena, intelligente e tremenda, che non lascia spazio a speranza alcuna, limitandosi a mostrare lo status quo di una anaffettività squisitamente maschile nella quale il maschio di oggi annaspa e muore.
Roma Fringe festival 2014 Ed